01/07/2016

Editoriale n. 3 – luglio / settembre 2016

Capacità e consenso (più o meno informato)

Notaio Giuseppe Artesi

Il tema del consenso e della volontà che lo sorregge, della sua legittima manifestazione e prima ancora della sua valida formazione, ha sempre appassionato gli studiosi di diritto per la straordinaria e fondamentale valenza che riveste soprattutto in campo privatistico ma anche nelle vicende che atecnicamente potremmo definire pubblicistiche o genericamente politico-civili.

È di tutta evidenza, per cominciare dalla prima area, che gli iniziali approcci di chi si affaccia a questi studi partono proprio dalla persona fisica e dalla sua capacità di concepire “quell’interno volere che si traduce in azione“, che sia non solo voluta, libera, consapevole, ma diretta ad uno scopo giuridicamente rilevante.

 Senza addentrarci sulle regole in materia di capacità di agire e sulla volontà degli atti giuridici in senso stretto, affascinante materia sulla quale i padri del diritto civile (F. Santoro Passarelli su tutti) hanno speso mirabili riflessioni, ci preme in questa sede soffermarci su quella che l’ordinamento giuridico stabilisce quale capacità sufficiente e necessaria per il fatto illecito e cioè non tanto la capacità di agire richiesta per il negozio giuridico, quanto quella minima e contingente capacità di intendere e volere indispensabile per rendere il fatto riferibile ad una volontà consapevole della materialità dell’atto prima ancora che delle sue conseguenze giuridiche. Da questa considerazione appare corretto far discendere il principio generale che pone quale requisito degli atti giuridici, non soltanto di quelli illeciti, l’esistenza di una volontà consapevole che, ove mancasse, li renderebbe inidonei a produrre conseguenze giuridiche. Si pensi al consenso informato ai trattamenti medico-chirurgici o a quello in materia di commercializzazione di prodotti finanziari o ancora al consenso al trattamento dei dati personali ed alla loro utilizzazione.

In ambito pubblico, poi, al singolo individuo, che rileva soprattutto quale “cittadino”, é riservata l’assoluta libertà di manifestare comunque la propria volontà, forse quale unico strumento di partecipazione, senza alcuna valutazione della correttezza della sua formazione. Eppure proprio in questo ambito risulta estremamente importante che tutte le manifestazioni di consenso o dissenso ai temi della vita pubblica siano precedute da un’adeguata informazione alla quale purtroppo l’istituzione statuale dedica poche risorse e poca attenzione. Si pensi ad esempio a come i cittadini italiani si approcciano ai temi oggetto di referendum o a quanto siano informati sulle premesse scientifiche che stanno alla base di tanti temi e questioni etiche sulle quali a volte sono chiamati a pronunciarsi.

Le brevi considerazioni svolte fin qui si allacciano a due notizie, di costume, apparse sulla stampa abbastanza recentemente: uno studio del Professor Gian Carlo Blangiardo (docente di Demografia alla facoltà di Statistica dell’Università Bicocca di Milano) sulla decrescita demografica in Italia e che ci informa che nel 2060 avremo 1.200.000 abitanti con più di 95 anni ed un censimento dell’OCSE che analizza il livello di competenze fondamentali della popolazione tra i 16 e i 65 anni in 24 paesi del Mondo svolta nel periodo 2011/2012 e che colloca l’Italia all’ultimo posto di questa particolare classifica.

Il primo lavoro ci prospetta un’Italia sempre più longeva con aspettative di vita che crescono e dove gli over 65 si stima possano arrivare al 26,5% entro il 2030 e con al loro interno una percentuale del 40% affetto da almeno una malattia cronica e il 18% con limitazioni funzionali che incidono nella loro quotidianità. Da sottolineare, inoltre, che, in relazione all’aumento della popolazione, la previsione dell’Istat sul numero delle persone disabili per i prossimi 20 anni è di un incremento del 65-75%.

Il secondo spunto di riflessione ci consegna, stavolta quale attualità, una grossa percentuale di nostri connazionali che sanno sì leggere e scrivere ma non comprendono bene il senso di un articolo o di un testo, che non hanno la capacità di cogliere un’ampia visione di insieme soffermandosi solo sugli aspetti più semplici del testo, come una singola parola o frase o un passaggio che colpisce l’attenzione o che li può riguardare personalmente.

In estrema sintesi già adesso il 47% degli Italiani parrebbe afflitto da quello che si definisce “analfabetismo funzionale”: l’incapacità cioè di usare in modo efficiente le proprie abilità di leggere, scrivere, fare calcoli nella vita quotidiana, l’incapacità di “comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere con testi scritti per intervenire attivamente nella società”. Sostiene lo studio dell’OCSE che questa non irrilevante parte di cittadini si informa, vota, lavora (o non fa niente di tutti ciò) seguendo solo una capacità di analisi elementare che di fronte alla complessità si ferma ad una comprensione elementare.

Inevitabile chiedersi, in conclusione, se e come gli operatori del diritto o il legislatore addirittura si accostino a queste problematiche e soprattutto se sia necessario porsi il problema, de iure condendo, di adattare gli istituti giuridici esistenti a quelle che inevitabilmente saranno nuove condizioni che si troveranno a gestire in un futuro forse non troppo lontano. Tanto più si pone l’accento sulla necessità di una consapevolezza piena ed autentica quale presupposto necessario per una valida manifestazione di volontà capace di produrre effetti giuridici recepiti dall’ordinamento giuridico e dal consesso sociale e politico, tanto più diventa non solo necessario ma indispensabile dotarsi di strumenti che ne consentano la verifica se non con certezza almeno con sufficiente attendibilità.