01/04/2017

Editoriale n. 2 – aprile/ giugno 2017

Legge Cirinnà: unioni civili e convivenze

Avv. Remo Danovi – Presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano

Quasi 70 anni fa, nel 1948, i padri costituenti (i)scrissero in Costituzione la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio (articolo 29). Qualcuno di loro magari già considerava la futura possibilità di consentire il divorzio, ma nessuno certamente si sarebbe posto il problema della possibile uguaglianza di genere tra i coniugi.

Dopo pochi anni, nel 1961, la Corte costituzionale, con una riflessione di un paio di settimane tra l’udienza e la camera di consiglio, concluse che la punibilità del reato di adulterio solo nel caso fosse commesso dalla moglie rappresentava una legittima opzione del legislatore a garanzia dell’unità della famiglia, come limite all’uguaglianza consentito dallo stesso articolo 29, e perciò considerata prevalente rispetto all’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi.

Ancora pochi anni dopo, nel 1968, la stessa Corte, con 4 giudici ancora in carica dei 15 della sentenza precedente, ribaltò il precedente orientamento, affermando di ritenere «alla stregua dell’attuale realtà sociale, che la discriminazione, lungi dall’essere utile, é di grave nocumento alla concordia e alla unità della famiglia. La legge, non attribuendo rilevanza all’adulterio del marito e punendo invece quello della moglie, pone in stato di inferiorità quest’ultima, la quale viene lesa nella sua dignità, é costretta a sopportare l’infedeltà e l’ingiuria, e non ha alcuna tutela in sede penale». E ancora: «per l’unità familiare costituisce indubbiamente un pericolo l’adulterio del marito e della moglie, ma, quando la legge faccia un differente trattamento, questo pericolo assume proporzioni più gravi, sia per i riflessi sul comportamento di entrambi i coniugi, sia per le conseguenze psicologiche sui soggetti. La Corte ritiene pertanto che la discriminazione sancita dal primo comma dell’art. 559 del Codice penale non garantisca l’unità familiare, ma sia più che altro un privilegio assicurato al marito; e, come tutti i privilegi, violi il principio di parità».

Una sentenza brevissima e chiara, come allora si scrivevano la Costituzione e le sentenze costituzionali!

Appena due anni dopo, nel 1970, la legge sul divorzio fece irruzione nel nostro ordinamento. E quattro anni dopo il popolo, invitato ad abrogarla dai promotori di un referendum controverso, temuto dalla parte più avvertita della Dc ma non cavalcato neppure dall’apparato del Pci, si espresse senza alcun dubbio: 88% di partecipanti al voto, dei quali il 60% contrari all’abrogazione. A distanza di 28 anni dal referendum istituzionale, e in modo perfino più cristallino e privo di dubbi e insinuazioni, il popolo italiano per la seconda volta aveva esercitato con pienezza la sua sovranità.

Non è necessario ricordare le tappe successive per dire come si sia arrivati al divorzio breve (avendo per ora accantonato quello istantaneo), alla piena equiparazione tra i figli, sia nati nel matrimonio o fuori dallo stesso (equiparazione preceduta dalla scomparsa di qualsiasi valenza giuridica, ma perfino culturale e di comune percezione, per il primogenito e tanto più per il figlio maschio, ormai privi di senso se riferiti al riconoscimento di speciali attribuzioni).

E infine, pochi mesi fa, siamo arrivati alla disciplina delle unioni civili contratte in Italia o qui riconosciute.

Ma vi è altro ancora, poiché ora abbiamo a che fare con figli nati altrove, né dentro né fuori dal matrimonio, pienamente figli, anzi pienamente persone una volta nate, ma al centro di un dibattito culturale e ideale accesissimo, di valutazioni etiche, filosofiche e scientifiche controverse perfino tra gli addetti ai lavori, di conseguenze pedagogiche e sociali, psicologiche e perfino fisiche, di incerto riconoscimento ma che oggi è impossibile escludere con certezza.

Nel mondo senza frontiere fisiche e senza tempi di attesa nelle comunicazioni, abbiamo a che fare con situazioni legittime e da rispettare, meritevoli di piena dignità, contratte in paesi con legislazioni diverse, che chiedono riconoscimenti, trascrizioni, delibazioni, della convivenza, dell’unione, del matrimonio; ovvero riconoscimenti genitoriali, adozioni e affidamenti nei confronti del nuovo nato.

Il legislatore è stato a lungo incerto, non sapendo se assecondare, prevenire, precedere, impedire, le nuove domande e situazioni, dalle convivenze alle adozioni, dalla trasmissione della vita alle scelte del fine vita. Anche i singoli componenti del Parlamento spesso non hanno la risposta, e immaginare di formare una maggioranza è quasi sempre impossibile. La legge 76/2016 ha rappresentato un’eccezione, per aver saputo trovare una maggioranza comunque significativa, sia pure a prezzo di aver accantonato (non risolto con il voto in un senso o nell’altro) situazioni che certamente si ripresenteranno a breve. Ma nessuno pensa di sottoporla a referendum abrogativo (o molti vorrebbero pensarlo, ma nessuno si azzarda a farlo, almeno pare).

Nella molteplicità di opinioni e di passioni su questioni profonde, anche se talvolta trattate con superficialità dagli uni e dagli altri, forse si deve ammettere, o prendere atto che l’unità della famiglia non esiste più, come obbligo nel tempo, nel lungo termine; è messa in discussione anche durante la sua esistenza, ma soprattutto è superata da una nuova concezione di famiglia e di rapporti familiari (la si chiami «famiglia allargata» o in altro modo) che non lega più la stabilità e l’intensità delle relazioni interpersonali alla sussistenza (e perfino all’esistenza) di un vincolo giuridico o sacramentale, e nemmeno all’originario rapporto di coppia, di qualsiasi natura e stabilità esso fosse, e ammesso che sia mai esistito, per volontà o per circostanze fortuite o avverse che siano state.

Ben più della società liquida dell’appena compianto Zygmunt Bauman, e del «partito liquido» evocato in politica – e lì probabilmente sinonimo soltanto di partito dissolto – la «famiglia liquida!» riserva tante sorprese, perché la minore stabilità rispetto a un tempo (quando era spesso solo di facciata) è compensata, sostituita, accompagnata da affetti più genuini, più disinteressati (ma non sempre, non illudiamoci), più informali. Una volta il matrimonio si faceva anche per interesse, ora è difficile negare l’esistenza del divorzio di interesse.

Forse, se volessimo per un momento riscrivere la Costituzione, non solo nella parte II della quale oggi tutti siamo o abbiamo creduto di essere esperti fino a qualche settimana fa, ma perfino nella prima parte, potrebbe essere desiderabile scrivere che la famiglia è una società naturale fondata (più che sul matrimonio) sull’affetto tra i suoi componenti. Sull’affetto e sulla reciproca responsabilità.

In attesa che queste prospettive possano realizzarsi, è giusto e doveroso conoscere e studiare, con le unioni tradizionali, anche le nuove unioni, con i loro diritti e doveri, materiali, morali e patrimoniali, come oggi siamo invitati a fare.